L’arte culinaria nipponica è intrecciata a tantissime culture, specie quella del sake.
Cos’è il sake giapponese?
Il sake giapponese è una bevanda alcolica ottenuta da una doppia fermentazione. Derivante da un microrganismo denominato Koji (un tipo di muffa) e dal complemento Kobo (un lievito).
Ne esistono di tantissimi tipi e suddivisi in tre definizioni: Ginojoshi, Junmaishu, Honjozsush.
Il riso è l’ingrediente fondamentale ma a completarlo vi è l’acqua, la distillazione del riso, il Koji, il lievito e la sterilizzazione. Ultimo e non meno importante, la manualità dell’operaio. Se il Sake è artigianale, è ancor più buono.
Doppia fermentazione multipla e parallela
Dopo la raccolta del riso inizia la produzione. Il momento cruciale è l’aggiunta di Koji (l’anima del sake): l’enzima ricavato che trasforma l’amido di riso in glucosio.
Raramente è conservato per più di un anno, a meno che non si tratti di Koshy. Questo viene invecchiato per poi acquisirgli il sapore di cherry, noci e spezie.
Il Mutamento della cultura del sake giapponese
La storia vuole che venga sorseggiato nel masy, un piccolo bicchierino di ceramica. Il Sake deve essere limpido in modo da riuscir a vedere sul fondo della ciotolola spirale blu disegnata.
Oggi è bevuto anche nel classico bicchiere di vetro da degustazione. A testimonianza del cambiamento anche nei concorsi più importanti, il sake viene servito in calici di vino.
Nonostante i continui mutamenti, però, una cosa è certa: il Sake giapponese arriva sulle tavole occidentali mantenendo intatta la sua formula essenziale.
Senza di essa, senza i suoi ingredienti, non è un vero Sake.